CIRCO MASSIMO
Monica Prisco
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 4 dicembre 2010
IL POVERO SIGNOR PEEL
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Monumento allo spazio vuoto.
Spazio da riempire, sogguardato dall’esercizio del grazioso, turrito obelisco: la stele di Axum, da qualche anno rocambolescamente restituita all’antico regno d’Etiopia.
Un obelisco trovato in pezzi, in terra, dai soldati fascisti; un antichissimo segnacolo funerario; una sfida dell’uomo alle leggi fisiche, in quanto la base dell’opera non è proporzionale alla sua altezza.
Del resto una stele funeraria, per sua costituzione, è direttamente piantata in terra, in prossimità dell’oggetto di culto, senza l’ausilio di una piattaforma che marchi uno iato con la nuda polvere.
Qui invece si è evidentemente avvertita l’esigenza di inserire una base che lo sollevasse, lo distanziasse dal suolo, facendolo assurgere al blasonante ruolo d’obelisco, orgoglioso bottino di guerra.
Dunque, una colonna funeraria che si proietta in alto, verso un ideale superamento di una razionalità coerente, in un luogo vuoto, traccia mnemonica, impronta di un monumento scomparso, cancellato dal tempo. Il circo Massimo, appunto, patria delle circensi, ludico attività del romano ma anche luogo d’incontro di culture e civiltà, sulla base dello scambio commerciale favorito dalla presenza della sponda del Tevere a pochi metri.
Oggi, solo uno spazio vuoto.
Duttile teatro per qualsivoglia celebrazione, evento o portento della contemporanea italica stirpe.
Il colonialismo si dà come obiettivo l’occupazione di uno spazio, considerato vuoto.
Di riempire uno spazio con il surplus, il di più che l’occupante ha da portare.
Allora, sempre l’occupante, si  sbizzarrisce nell’allestire sontuose scenografie che siano, sul piano dell’immagine, il segno della bella necessità che la propria occupazione  rappresenta.
Nani e giganti s’alternano sul palcoscenico in marziali, serafiche parate. Portentoso immaginifico potere dei colori sbandierati, dei simboli indossati dai petti inorgogliti di occupanti ed occupati. L’invadenza dei segnali materici sfoggiati in un baluginio di neoconiazioni pseudo-lessicali.
Nuovi nomi per vecchie vite. Nuove lingue ripiegate, ritagliate, aggiustate come vesti su corpi troppo lunghi, troppo alti, troppo magri, troppo grassi.
Così che le imperiture lingue dell’industrialismo classico sono vesti un po’ ridicole, rabberciate, in bocca a labbra altre. Tutto si confonde dunque in bizzarre forme; ad inventarsi nuove costruzioni, nuove architetture.
Ma i colori no, quelli restano scissi, rigidamente separati. I colori dei diritti si dicotomizzano agevolmente, con naturale ovvietà.
Da una parte i buoni e giusti, piegati dal bianco  peso da dover portare con altero sacrificio; dall’altra i cattivi, eppur forse in fondo buoni, scolaretti da educare, formare alle forme moralizzate.  Il cuore nero della tenebra. Il buio del vuoto dell’inanità, dell’ottusa incomprensione.
Nella selva oscura della coscienza che fa finta di non riconoscersi.
Chi è l’altro che fa paura?
Chi è l’altro che bisogna sottomettere?
L’imperativo economico del bisognoso, privato particolare non cancella, non riesce a passare un efficace colpo di spugna sull’eterno quesito dell’dentità. Dell’identità nella differenza.
Le posizioni realmente occupate nella variegata geografia dell’anima umana; le posizioni occupate da noi e da loro. Io so, credo di sapere chi sono e dove sono.
Ti guardo, sei lontano, sei diverso. Immagino di sapere dove sei e dunque chi sei. Come vivi e come pensi. Non posso non registrare un affaticato ritardo dell’altro sulla strada dell’ottimi-stico divenire; un positivismo proprio a tutte le ere. >
La tecnologia non ha età: è sempre giovane, sempre altro, nella sua incessante proiezione in avanti.  Il mito delle meravigliosi sorti e progres-sive.  Da cui l’altro, ahilui, è escluso.
Di qui la necessità di supplire.  Di portare il peso di dover colmare un vuoto. E assieme ad esso, di inventare un bisogno. Uno nuovo, che prima non c’era.
E poi un altro. E un altro ancora.
E quel bisogno è ora la mia identità, ciò che fa di me un individuo vivo, desideroso di.
Cosa rimane, dunque, della polverosa storia fatta e rifatta in continue, letterarie reiterazioni?
Cosa dello sguardo allucinato di Kurtz, dell’orrore dipinto sulle sue labbra; cosa dell’imbarazzato silenzio di Marlow? 
Forse resta una spessa patina opaca di malcelata indifferenza. Di sostanziale appiattimento che tutto vorrebbe uniformare e unificare alle leggi della più spicciola e frivola, materica sostanza.  Il silenzio, pietoso e colpevole dell’uomo che torna dall’abisso della conoscenza.
Dal cuore di tenebra.
Non importa chi tu sia o dove sia fintanto che ti sottometti, docile, alle leggi del mercato.
Laddove l’agognata, romantica favola della libertà, sogno dell’uomo occidentale, nonché antico, scontato baluardo delle civiltà autodeterminatesi, si perde nella nebbia del viscido liberismo che annega odori e sapori, acuminate differenze, in un plasticoso, grazioso, seducente packaging di grigi compromessi.

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